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Dietro la decisione di Google di abbandonare la Cina deviando il traffico su Hong Kong ci sarebbe la volontà del co-fondatore Sergey Brin, che con il passare del tempo ha visto i metodi del regime sempre più simili a quelli applicati nel suo paese natio: l’Unione Sovietica.
«La Cina ha fatto grandi progressi contro la povertà e altri problemi – ha detto Brin – tuttavia, in alcuni aspetti della sua politica, in particolare riguardo alla censura e allo sorveglianza dei dissidenti, vedo le stesse caratteristiche del totalitarismo, e questo mi dà molto fastidio».
Il 36enne Brin è scappato dall’Unione Sovietica con la famiglia quando aveva sei anni. Racconta che i ricordi di quel periodo – perquisizioni della polizia, discriminazioni antisemite contro il padre – hanno rafforzato la sua opinione che opporsi alla censura cinese fosse la cosa giusta da fare.

Pare che non tutti fossero d’accordo all’interno del board di Google. La linea di Brin ha prevalso su quella dell’amministratore delegato Eric Schmidt e di altri, che volevano perseguire il cambiamento dall’interno rimanendo in Cina. “Abbiamo avuto una lunga conversazione in proposito, diverse lunghe conversazioni”, ha detto Brin, “Abbiamo sentito tutte le opinioni”.
La mossa di Google genera comunque incertezza sul futuro dell’azienda nel mercato in più rapida espansione al mondo che dispone già di 400 milioni di utenti.

(fonte notizia Il Sole 24 Ore)

La domanda è ricorrente: in una società capitalistica il fine giustifica i mezzi? Cioè l’obiettivo di cresicta aziendale è l’unico obiettivo?

La Responsabilità Sociale d’Impresa è un valore ancora troppo poco sentito ma una multinazionale come Google, fondata sul motto “don’t be evil”, ha dimostrato che a volte la cosa più importante non è fare affari ma come fare affari.

Riprende la diatriba tra Google e la Cina dopo il problema dei mesi scorsi per un presunto attacco ai server di Google da parte di hacker per conto del governo cinese.
Ora le agenzie di Pechino minacciano cause per danni se l’azienda americana abbandona il mercato cinese. Ma ne frattempo le tensioni si calmano ed il motore di ricerca americano continua ad operare. Infatti una fuoriuscita di Google dal mercato cinese minaccia di trascinarsi dietro anche pesanti conseguenze giudiziarie in America.
In una lettera pubblicata su un sito affiliato con la Televisione centrale cinese le aziende che vendono spazi pubblicitari su Google in Cina hanno infatti domandato chiarezza sulle intenzioni del colosso americano. Inoltre hanno minacciato di chiedere esosi rimborsi nel caso di una chiusura delle attività cinesi.

Google è ormai da mesi alle prese con una faticosa trattativa con il governo di Pechino per quanto riguarda le sue attività in Cina. Google ha accusato la Cina di avere ordito un attacco a suoi siti email, e quindi oggi chiede maggiore sicurezza e migliori condizioni nel mercato.
In caso contrario minaccia di togliere i filtri censori al suo motore di ricerca cinese, cosa che automaticamente comporterebbe la chiusura delle sue attività qui ad opera del governo.
Pechino sostiene di essere estranea agli attacchi, dice che in ogni paese si rispetta la legge del posto e se Google vuole lasciare la Cina sarà Google a perdere.
Ora le minacce delle agenzie di pubblicità aprono una nuova dinamica. Da mesi gli affari languiscono, spiegano i pubblicitari, né i contratti vengono rinnovati vista l’atmosfera di generale incertezza sulle decisioni dell’azienda informatica Usa.
In realtà nel breve periodo è improbabile che avvengano colpi di scena e chiusure improvvise.
Google non si muove da sola, un’azienda di queste dimensioni e di questa importanza mediatica, ha la benedizione o almeno la luce verde da parte del governo americano.
In tutto ciò la questione di Google ha smesso di essere una vicenda puramente commerciale e ha assunto sempre più toni politici. È una specie di cartina tornasole dei rapporti bilaterali, e delle tensioni che si aggrovigliano intorno ad essa da parte di quanti, da una sponda e dall’altra del Pacifico, vogliono magari menare le mani.
(fonte LA STAMPA – Francesco Sisci)